Mediapart: ciò che non costa non vale?
«Il web per tutti è sinonimo di gratuità«. Alzi la mano chi, in qualsiasi momento della sua vita, da quando il web 2.0 imperversa, non se lo sia sentito ripetere almeno un paio di volte. Specie quando si parla di informazione.
E invece no: non è detto che internet debba essere sinonimo di informazioni diffuse in maniera gratuita. O almeno pare che possa esserci una soluzione diversa. Quale?
L’esempio – di cui parla “La Stampa” nell’edizione di oggi on line – viene dalla Francia e si chiama Mediapart. Si tratta di un progetto di informazione a pagamento esclusivamente on line. Il giornale si legge su internet, si paga ma non ha né pubblicità né editori (nel senso peggiore del termine che intendiamo noi). In sintesi estrema: l’unico padrone del giornale è il lettore.
Detta così sembra la teorizzazione di una vecchia idea – molto idealistica e poco reale – del modo di fare informazione.
Invece il giornale – dal 2008 guidato da una vecchia volpe del giornalismo francese, Edwy Plenel, ex direttore di Le Monde – esiste davvero e qualche giorno fa ha festeggiato i centomila lettori.
La Stampa riferisce che lo slogan della serata sia stata una profezia poco profetica: «Credete nella mia esperienza: Mediapart non funzionerà mai, la stampa sulla Rete non può essere che gratuita». La frase fu pronunciata nel 2007 da Alain Minc, un esperto di editoria e finanza, alla vigilia della nascita del nuovo progetto.
In realtà il fatto che nel web tutto debba essere gratuito è una semplice constatazione che facciamo quotidianamente ed è una convinzione che sembra oramai indistruttibile. Spesso ce ne facciamo una colpa (e quando scrivo al plurale intendo tutti quelli che gravitano, in un modo o in un altro, nel mondo dell’informazione): aver “concesso” inizialmente l’informazione on line in maniera gratuita ci ha condannato. Una convinzione radicata, certo; ma potrebbe non essere così. Almeno non in parte.
Oggi Mediapart è una realtà con 52 dipendenti, con un bilancio nel 2014 di poco meno di 9 milioni di euro e con un attivo di 1,3. I numeri parlano di centomila abbonati, duecentomila visitatori al giorno: cifre da gradi giornali che però, a differenza di Mediapart, beneficiano anche di finanziamenti pubblici.
Le ragioni del successo, secondo il direttore Plenel sono molteplici: innanzitutto – dice – «abbiamo scoperto che il virtuale è reale»; poi conta molto la partecipazione dei lettori, l’interazione tanto sbandierata dal momento della nascita del web 2.0. E – dice Plenel con un concetto particolarmente innovativo rispetto ai soliti luoghi comuni – il digitale permette la valorizzazione, si conserva più della carta e non fa perdere la memoria, come invece farebbe l’informazione tradizionale ossessionata dall’attualità.
Ma che notizie riporta Mediapart? Il direttore viene considerato come un giornalista ossessionato dallo scoop. Non a caso Plenel ha dichiarato che «per noi fare giornalismo significa sempre prendere posizione, fare inchieste e dare notizie che gli altri non hanno».
La formula innovativa comporta per i lettori il pagamento di un abbonamento mensile di 9 euro oppure un annuale di 90 euro.
In conclusione? A mio avviso il caso Mediapart sembra mettere in risalto una logica mai troppo scontata: ciò che non costa non vale (e su questo si potrebbe aprire un capitolo infinito sui costi/prezzi delle collaborazioni giornalistiche. Ma sarà meglio parlarne in altra sede…).
Ciao Barbara, l’articolo è molto interessante dato che delinea una realtà esistente ma allo stesso tempo inaspettata e imprevedibile. Sono i numeri ad impressionare piuttosto che la strada che è stata compiuta da Mediapart dall’arrivo di Plenel nel 2008.
La tendenza a non considerare più il web una “risorsa unicamente gratuita” sembra una constatazione che ormai si è fatta spazio (appolaiandosi comodamente) nell’ideario collettivo dei navigatori del web. Quando poi si assiste ai ‘colossi dell’informazione’ (come Foreign Policy o NYT) utilizzare lo stesso comportamento nei confronti dei loro lettori, non si hanno più dubbi al riguardo.
Relativo all’argomento, volevo sottoporre alla tua attenzione un mio articolo riguardante l'”estinzione dei giornali cartacei” in favore di quelli unicamente online, ottenuto tramite le statistiche del sito FutureExploration.net (qui il link: http://wp.me/p3tHAW-d3 ).
Ciao Gianmarco, innanzitutto grazie della visita e benvenuto.
Ti dico la mia: spesso – forse troppo spesso – anche nel mondo della comunicazione e dell’informazione si ragiona per luoghi comuni. E il riferimento è ovviamente alla questione della gratuità del web ma anche a quella della fine dei giornali di carta (questione che tu giustamente poni).
Io confesso pubblicamente il mio punto di vista: non credo che i giornali di carta smetteranno di esistere. Se dovesse accadere, credo che sarà perché – come purtroppo è successo anche in passato (la storia del giornalismo ce lo insegna) – il prodotto non ha saputo adeguarsi al passare del tempo.
Non credo nell’estinzione dei giornali ma non condanno neanche chi ne prevede la fine da qui al 2027.
Dico che spesso – come anche il caso Mediapart dimostra – anche la comunicazione e l’informazione non sono scienze esatte e che forse fare previsioni a lungo termine è difficile. Ma studiare le tendenze, le novità e gli esperimenti, anche “esteri”, non fa male di certo: aiuta a capire logiche che, se restassimo sempre chiusi nel nostro piccolo mondo, difficilmente comprenderemmo.
La vedo in maniera molto simile alla tua. È davvero impossibile dare un “ultimatum” preciso come una annata, dato che sono eventi caratterizzati da lunghi tempi di attuazione.
Però che la crisi della carta stampata dia evidente non possiamo negarlo – vedendo anche gli abbonamenti online dei giornali, le versioni scaricabili in pdf e l’implementazioni dei servizi sui portali online.
Pagare per un servizio è sacrosanto e concepibile, dato che nessun è disposto ad ottenere e condividere una determinata notizia in maniera gratuita. Tutto ciò è capace di ridare vigore al mondo delle news – non solo quelle in tempo reale – rivalutando la professione e le relative nuove occupazioni che vengono ad auto-generarsi.
Giusta analisi. Anche se io credo che l’informazione on line per essere a pagamento debba necessariamente differenziarsi. O più semplicemente offrire un “di più”. Le inchieste, per esempio. O gli approfondimenti, i retroscena… Insomma, qualcosa per cui valga la pena sborsare anche la cifra mensile simbolica dell’abbonamento. Altrimenti, scusate, perché dovrei pagare per leggere ciò che trovo gratis altrove? Forse, on line più che altrove la qualità può fare la differenza.