Native Ad, la soluzione a tutti i problemi?
Native Ad. O Native Advertising, se preferite.
Fino a ieri abbiamo letto queste due paroline abbinate su qualche manuale di comunicazione o forse anche negli studi su alcune realtà abbastanza lontane da noi (e quando dico “noi” intendo il nostro Paese, l’Italia).
Da qualche tempo, però, queste due paroline tornano con insistenza nella mente, sugli schermi e davanti agli occhi di chi, in Italia, sia un minimo appassionato di comunicazione (e ora anche di informazione). Proprio ieri leggevo on line, su qualche blog, della possibilità che una buona parte dell’informazione diventasse a pagamento; a pagamento nel senso di “sponsorizzata da qualcuno”. Oggi, invece, c’è un intero approfondimento sul tema su R2 de la Repubblica.
Ma che cos’è questa “Native Advertising”? Una cosa abbastanza semplice: un contenuto sponsorizzato, promosso e offerto ai lettori. In pratica, mentre la pubblicità ha avuto sempre la caratteristica di distrarre il lettore, di farlo “staccare” dalla lettura, oggi la Native Advertising mira a far diventare anche l’annuncio pubblicitario come parte del contenuto generale. Provo a semplificare ancora di più: se prima la pubblicità rompeva il flusso delle informazioni, oggi, la Native Ad mira a inserirsi in quel flusso e a non rompere gli schemi, ma a usare una piattaforma nel modo in cui questa viene scelta dagli utenti.
Fin qui ci siamo (o dovremmo esserci). Il fatto è che la Native Advertising “rischia” (e consentitemi di usare le virgolette in questo frangente) di diventare parte della soluzione a tutti i problemi che caratterizzano oggi il mondo dell’editoria. Oramai oggi tutti i gruppi editoriali sono alla ricerca di nuovi modelli economici per affrontare un momento storico drammatico. E la Native Ad potrebbe essere proprio una soluzione a tutti questi problemi.
Ma voi ve le immaginate le inchieste sponsorizzate da un grande gruppo industriale? O articoli scritti grazie a sponsor che pagano letteralmente le spese? E soprattutto: voi lettori leggereste un giornale costruito così?
La Native Ad e varie sue derivazioni pare imperversino oramai negli Stati Uniti, come una vera e propria “pubblicità indigena”, cioè come testi che vengono concepiti e nascono nel giornale stesso, spesso scritti dalla stessa mano che realizza inchieste e articoli tradizionali.
Adesso io mi chiedo: in Italia c’è chi vedrebbe di buon occhio questa novità? Un’idea che susciterebbe non pochi problemi anche dal punto di vista della regolamentazione – e perché no? – anche per l’etica della categoria dei giornalisti. Ok la crisi, ok una situazione sempre più drammatica… Ma davvero i cronisti italiani sono disposti a scrivere dietro sovvenzionamenti degli sponsor? Non si svilirebbe così la vecchia e mitica figura del giornalista come cane da guardia?