Care PA, i social media sono una cosa seria
Quando dico che i social media sono una cosa seria spesso mi ridono in faccia. E invece il recente scivolone della Questura di Roma su Twitter (di cui parla Belisario in questo post) dimostra che ho ragione.
Per chi fosse pigro ad aprire il link, sintetizzo: qualcuno dalla Questura di Roma – con l’account ufficiale Twitter – ha twittato “ho risistemato lo sgabuzzino… m’è sembrato lo sgombero in un campo nomadi… meno male che sono preparata!!!”.
Insomma, uno scivolone nei termini e nei modi di pubblicazione del cinguettio. Alla luce di questa notizia, resto convinta del fatto che solo quando si comprenderà che Twitter, Facebook e i social media in generale non sono giocattoli si potrà utilizzarli al meglio, anche nell’ottica di una migliore comunicazione con le pubbliche amministrazioni, con le istituzioni in generale e anche con i privati.
Non è il caso di fare quello che dalle mie parti chiamano un processo alle intenzioni all’autore dell’oramai famigerato tweet. Non discutiamo della preparazione della persona che ha commesso il clamoroso errore. Non è il caso di farlo; né sarebbe giusto scaraventarsi contro qualcuno che, di sicuro ingenuamente, avrà fatto confusione tra gli account, forse usando quello istituzionale al posto di quello privato. Forse è solo opportuno ricordare una cosa semplice: occorre pensare prima di scrivere sui social media. Credo che questo sia un discorso mai troppo abusato. Anche nella vita quotidiana, ho l’impressione che il vicino e i conoscenti scrivano troppo e troppo a sproposito, come se non capissero la portata del mezzo e l’uso corretto che se ne dovrebbe fare.
Sarebbe forse solo opportuno chiarire che c’è bisogno di una sorta di manuale d’uso che deve necessariamente accompagnare chi utilizza i social media per conto di un’azienda o di un’impresa. Non voglio parlare di persone qualificate perché sarebbe una ingiusta offesa alla persona – non la conosco e non so chi sia – che ha commesso l’imperdonabile errore. Però forse un po’ di attenzione in più farebbe bene e consentirebbe di gestire al meglio anche i social media che – lo ripeterò fino alla noia – sono e restano l’immagine, la faccia – l’interfaccia, anzi – nel rapporto tra i cittadini e le PA.
Un brutto infortunio di sicuro, una specie di Justine Sacco de noantri: ma occorre considerare che nella PA non ci sono esperti in comunicazione, soprattutto negli uffici periferici, e spesso questi esperimenti sui social media sono l’iniziativa di qualche funzionario volenteroso, che magari opera da casa o dallo smartphone in quanto le politiche di alcuni ministeri (non so all’Interno, ma certo alla Giustizia) non consentono di accedere ai social dal pc d’ufficio. E sullo smartphone, lo sapete, è piu facile switchare da un account twitter ad un altro.
Senza voler scusare certi pensieri inammissibili, voglio solo sottolineare che la richiesta di maggiore normazione, in un paese e in un settore pubblico che gronda già di circolari e regolamenti, rischia di uccidere sul nascere tentativi di affacciarsi alla modernità che comunque sono apprezzabili, soprattutto perchè nascono dal basso, in una logica bottom-up che già di suo sovverte il canone della burocrazia per cui tutto deve partire dall’alto.
Insomma, meglio avere una PA che twitta, e che impara dai suoi errori, che fucilare sul posto chi ci ha provato, per poi ritrovarsi con i soliti vecchi burocrati attaccati alle solide certezze offerte da leggi e regolamenti (del secolo scorso).
Per certi versi sono d’accordo: meglio comunicare sbagliando che chiudersi a riccio, come vecchi burocrati inondati da incomprensibili carte. Però io dico anche una cosa, anzi tre:
– Ok per i funzionari volenterosi. Ma ci sono persone che si sono formate e continuano a formarsi sui nuovi media: perché non utilizzare in qualche modo le loro professionalità?
– Non chiedo una maggiore normazione ma solo delle informazioni basilari, tipo manuale d’uso per i social network… Il funzionario volenteroso va bene, ma occorre anche fornirgli informazioni e consigli su come usare al meglio gli strumenti che ha a disposizione.
– E poi resta da risolvere la piaga dei social network a cui non si accede dall’ufficio. Ma qui bisognerà lavorare – e tanto – sulle menti di tutti, per far sì che i social network passino da perdita di tempo e strumento futile a utile strumento per la diffusione delle comunicazioni e informazioni (di vario tipo, ovvio)
Le rispondo dall’interno della PA: perchè esiste una cosa che si chiama blocco delle assunzioni, quindi non c’è nessuna possibilità di arruolare nuove professionalità, che usino ed insegnino ad usare i nuovi media. Non solo: grazie al blocco del turn over l’età media del pubblico impiego è alta e cresce sempre di più: è un esercito di pensionandi, sostanzialmente. Il che vuol dire che i nativi digitali sono ben pochi.
Io ho portato il mio ufficio sui social, finora l’unico tribunale d’Italia, ma è un lavoro che faccio da casa, volontariamente, e da autodidatta. E sono perfettamente consapevole che fare confusione tra il proprio profilo personale e quello d’ufficio è possibile (anche se comunque non mi esprimerei mai in quel modo).
Perchè non si possono usare i social dall’ufficio? Per un radicato pregiudizio nei confronti dei pubblici dipendenti, ecco tutto. Vi ricordate quando Brunetta voleva aumentare la produttività mettendo i tornelli? C’è nessuno che gli ha fatto notare che magari si poteva provare con qualcosa più XXI secolo, tipo il telelavoro? Ecco…
Ovviamente la domanda retorica sul perché non si assumono giovani non era rivolta a lei o a quanti si adoperano per migliorare la comunicazione delle Pa. La mia era una domanda provocatoria nei confronti di una classe politica che non riesce a garantire gli strumenti e le soluzioni adeguate per offrire ai cittadini informazioni di servizio, oltre che di qualità. Credo sia, anzi, il caso di fare pubblicamente un plauso a lei e a quanti, quotidianamente, in aggiunta al lavoro d’ufficio, impegnano il proprio tempo a migliorare i servizi che le amministrazioni offrono ai cittadini. Ma, questo me lo deve consentire: siete casi rari, ancora troppo pochi. Noi comuni mortali siamo abituati male: alle Pa che non dialogano, a quelle che non rispondono alle mail, che addirittura hanno la casella Pec piena e che bandiscono ancora concorsi pubblici che non prevedono l’invio delle domande tramite posta elettronica certificata…